Augusto scrutò fuori dal finestrino e notò che erano fermi a una stazione di servizio, raccolta la giacca scese dal bus ancora mezzo assopito. Di preciso non si ricordava quanto avesse dormito, ma pensò per diverse ore: visto che gli doleva il collo e le gambe erano intorpidite. Soffiava una leggera brezza, fastidiosa pungente e silenziosa e cercando riparo da essa entrò nella piccola stazione degli autobus. Salutò con un cenno della mano l’autista per poi dirigersi verso il distributore automatico, latte macchiato e una brioche da pochi pesos, avrebbe fatto colazione. Uscito dal fabbricato si sedette su una vecchia panchina arrugginita sorseggiando la sua bevanda e osservando divertito alcuni ragazzini che tiravano calci a un pallone. Un poster appeso alle pareti del benzinaio recitava che quella era la città più a sud della terra. Il suo sguardo pensieroso cadde sulla lunga striscia d’asfalto che dal mare l’avrebbe portato alla prateria. Secondo l’autista, lì, in quella piccola stazione di corriere finiva la civiltà nel senso lato di centri abitati e cominciava la Terra con la “t” maiuscola, la strada, l’America, in poche parole la Pampa. La Pampa, quella America dal cuore di ghiaccio sarebbe stata il luogo della sua rinascita, ne era certo, il suo nuovo angolo di mondo. Cellulare alla mano, da un sito di cavalli, si informò sul criollo. Il telefono vibrò. Una chiamata, in chat dall’Italia, era suo cugino Giovani.
“Giò, sai che questi criolli non sono veri cavalli…Sono pony! Capisci? Degli stramaledetti cavalli nani”, rispose sogghignando al cellulare.
“Si lo so, ne ho allevati alcuni. Mi ricordo che hanno un garrese ben definito, la spalla robusta, il petto ampio, un dorso breve con lombi muscolosi. Ma di che diavolo mi fai parlare… Ago voglio sapere come stai. Tua madre è in pensiero”, lo rimproverò il cugino.
“Sto bene, dopo la chiamo”
“Dove sei?”
“All’inizio della fine del mondo. Mancano ancora otto ore di viaggio alla fattoria”
“Tu sei un pazzo. Allevare cavalli in Argentina, come se non ti bastano quelli di tuo padre. Volevi allevare cavalli? Sicuramente lo zio un lavoro te lo dava”
“Sai che dovevo partire… Dovevo cambiare vita e dimenticare”
“Ago, ti ha lasciato quella stronza di tua moglie e hai perso il lavoro… Capita a tanti purtroppo, ma non sei un ricercato con un mandato di cattura internazionale che ti devi nascondere nel più sperduto posto del mondo. O forse o lo sei?”
“Non mi nascondo. Zio Alberto è di famiglia”, rispose con un ghigno Augusto.
“Si certo di famiglia. Il suo bisnonno era di famiglia quando partì dalla Maremma agli inizi del secolo scorso, ma lui non sa niente di te e di noi… Scommetto che vagamente sa dové l’Italia”
“Giò, tranquillo e a casa racconta che me la cavo”, e senza aggiungere altro chiuse la conversazione e risalì sul bus.
Augusto era consapevole che tutti quelli che arrivarono quaggiù prima di lui cercavano qualcosa, la via per le Indie, la rotta per i ghiacci del sud, la fine di un mondo troppo stretto, la risposta a una loro solitudine. La gente della Pampa era fatta di emigranti, esuli provenienti da ogni angolo del mondo, come il suo lontano parente: una tale di nome Samuele. Samuele Pierotti, agli inizi del 900’, aveva quattordici anni e cercava un lavoro e glielo offrì un prete, un salesiano del suo paese. Gli disse:
“vieni con me, mi aiuterai a costruire la mia missione”.
Samuele, ultimo di dieci figli cresciuti in fretta in una Maremma troppo povera, non chiese nemmeno dove sarebbe dovuta sorgere questa missione, se alla periferia di una grande città o sulle montagne. America, gli disse il prete e ciò gli bastò. Fu uno dei primi italiani ad arrivare nella “Tierra del Fuego”. Suo figlio Rodrigo è nato quaggiù e ha deciso di rimanerci per sempre, mettendo su famiglia e costruendo una fattoria. Ora il nipote di Samuele Pierotti alleva cavalli e bestiame. Quando il pullman ripartì Augusto era l’unico passeggero e l’autista lo invitò a sedersi dietro di lui, bene pensò era un modo per conversare in spagnolo.
“Miguel manca ancora molto al villaggio”, domandò Augusto.
“Penso che visto che la strada è deserta per via delle festività ci metteremo un sei ore. Un paio di ore in meno. Ragazzo… Su questa vecchia statale non sono poche”, rispose l’uomo.
Augusto trascorse una bella mezzora a guardare attraverso il parabrezza una terra che non mutava mai: la pampa, la prateria. Seguiva con lo sguardo la linea retta dei pali del telegrafo, gli arbusti spazzolati dal vento, la strada diritta che non vedeva mai dove andava a morire e quando i cespugli si fecero più bassi, gli alberi scomparirono e il cielo diventò teso come un tappeto ed eccoli i criolli, con il loro tozzo corpo e le loro buffe orecchie dritte, liberi di correre nella Pampa.
“Miguel sono qui per loro”, chiosò augusto indicando i cavalli al lato della strada.
“Sei un gaucho?” Lo squadrò voltandosi l’autista.
“Un allevatore e un mandriano. In realtà sono un buttero, anche se mio padre mi ritiene più un guardiano di vacche”, rispose malinconico Augusto.
“Un buttero?”
“Una specie di cowboy italiano, ma senza pistola”, ribadì ridendo.
“Il gaucho non è un cowboy è un lavoratore libero della pampa. Il gaucho è un mestiere antico. Questi mandriani popolarono queste terre da più di duecento anni. Il gaucho da sempre lavora libero ed è al soldo dell’oligarchia che possidente il Paese, ora come allora… Ah… Sé vuoi fare il gaucho, ragazzo, la pistola ti serve: la Pampa non è uno scherzo”, troncò lapidario e serioso Miguel.
Augusto sorvolò sul discorso del perché dovesse usare una pistola, ma era rimasto colpito dal lungo monologo di Miguel sullo sfruttamento degli indios e sui danni provocati dei latifondisti su questi territori. Oggi, sottolineò l’autista, non esistono più entrambi: i primi sterminati a colpi di crocifisso, prima dai conquistadores e poi dal morbillo, gli altri dalle riforme agrarie degli anni Settanta. Augusto capì solo che quelle terre non appartenevano più a illuminate famiglie castigliane, ma a centinaia di piccoli proprietari e che nessuno di essi possiede più di cinquemila ettari, che da queste parti sono appena un fazzoletto di terra rispetto all’immensa Pampa.
“Ho presente cosa è un gaucho: il suo buffo vestito, il sombrero a larghe tese, il fazzoletto annodato al collo, le scarpe di corda e l’inseparabile chitarra. Non è il mio outfit preferito non è il mio stile”, commentò irridendo Augusto.
“Altri tempi…Quelli erano vestiti da poveri, da lavoratori, poiché i padroni dell’azienda, quelli che avevano il dominio agricolo e culturale ed economico del Paese, all’epoca, erano loro che vestivamo alla moda. Oggi i tempi sono cambiati, ma non la mentalità del gaucho. Per percorrere la sterminata Pampa portando le mandrie da una parte all’altra del paese il gaucho ha solo, il mate e il cavallo che lo accompagnano nella solitudine delle grandi distese. La sua vita è dedicata a questo e ovviamente al padrone che lo paga”.
“Pierotti. Lavorerò per lui. Alleverò i suoi cavalli”, chiarì augusto.
“Allora è sicuro... Hai bisogno di un'arma”.
Con questo racconto partecipo a: theneverendingcontest 112 S2-P3-I3 - Concorso.
L'argomento e la situazione sono @clifth,vincitore della settimana precedente:
Argomento :Horse
Context : Prateria
Saluti by kork75