Questo racconto è stato scritto per partecipare a The neverending contest n° 95 S5-P9-I2 di @storychain sulla base delle indicazioni del vincitore precedente @kork75
Tema: Ultima partita
Ambientazione: cortile
Dolcemente, Lei arrivò alle sue spalle e posandogli una mano sulla spalla sinistra, gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
Ciao, vecchia amica. Sapevo che ti saresti presto fatta viva di nuovo, se capisci cosa intendo.
Per tutta risposta Lei gli strinse soltanto un po’ più forte le lunghe dita ossute attorno al braccio.
Dammi solo il tempo di terminare i miei saluti, non ci vorrà molto e almeno questo me lo devi, no?
La morsa allentò la sua presa in segno di silenzioso assenso.
Con la pacata calma di chi ha corso tutta la vita prima di iniziare a vivere, Rino si alzò lentamente dalla poltrona davanti la Tv, fece il caffè a sua moglie e glielo portò a letto, come faceva ogni pomeriggio da 54 anni. Le diede un bacio e le disse "Scendo in cortile dai ragazzi".
I “ragazzi” erano un gruppo di arzilli pensionati che si erano conosciuti tutti dopo il termine delle loro attività lavorative. Non che non si fossero mai incrociati, anzi: non di rado entravano insieme in ascensore o scorgevano i vicini portare a spasso il cane o gettare l’immondizia o correre via al lavoro, ma i loro incontri non erano mai andati più in là di un Buongiorno o un Buonasera. Dopo la pensione, invece, che li aveva trasformati in fantasmi inoperosi infestanti le loro stesse case, erano stati sbattuti fuori senza mezzi termini da mogli esasperate, ritrovandosi infine nel cortile del loro stesso condominio. Vi abitavano da venti, trenta, a volte quarant’anni, ma molti di loro non avevano mai fatto un giro in cortile, delegando l’ingrato compito di passeggiare cani e bambini alle mogli casalinghe o alle giovani tate, per dedicarsi a tempo pieno alle loro professioni o al massimo alla partita della domenica in tv. Quando i neopensionati, infine, avevano scoperto questo nuovo mondo fatto di panchine, aiuole e tavoli all’aperto, sotto fronde accoglienti di alberi maestosi, ne avevano fatto la loro seconda casa, scandendo le giornate in base agli “impegni in cortile” con una tale naturalezza che sembrava non avessero mai fatto altro nella vita. Avevano formato dei gruppi di interesse, scambiavano idee ed esperienze, e a giorni alterni giocavano a scacchi o a carte o a ping pong, organizzando persino dei piccoli tornei di tanto in tanto.
Rino, uno dei primi pensionati ad aver fatto amicizia coi “ragazzi”, era particolarmente affezionato alle partite a scacchi del mercoledì, quando lui e il suo grande nemico-amico Armando finivano sempre per sfidarsi e divertire gli altri a colpi di mosse e strategie. Afferrato quindi bastone e cappello, aprì la porta di casa e chiamò l’ascensore per raggiungere gli amici del cortile. Era ancora presto, solo un paio di loro lo avevano preceduto, così ne approfittò per sedersi su una panchina e godersi i dolci raggi del sole ottobrino, ancora tiepidi appena, con gli occhi socchiusi e il mento appoggiato sul dorso delle mani che reggevano il bastone fra le gambe. Passarono alcuni lunghi minuti di beatitudine prima che un’ombra gli oscurasse il viso: ben piazzato davanti a lui, più giovane di ben cinque anni, che intorno all’ottantina fanno una certa differenza come prima dell'adolescenza, Armando era pronto a chiedere la rivincita per la sconfitta della settimana precedente.
Rino si alzò sorridendo, lentamente, portandosi la mano alle anche dolenti per aiutarle a raddrizzarsi, e con Armando si diresse al tavolo da gioco. <<Ti darò scacco in meno di dieci mosse, vedrai!>> Lo sfidò Armando. Quello era un loro rituale di ogni partita: sfidarsi a parole prima che con le pedine. <<Sono certo che non riuscirai in meno di quindici, Nando caro>>. Lo canzonò Rino.
I ragazzi avevano scoperto per caso che quello era il modo in cui la suocera lo aveva sempre chiamato per distinguerlo dal proprio stesso marito, Armando anche lui, ma che “Nando caro” detestava. Quale gioco è più divertente dello sfidare un compunto ragioniere a perdere le staffe usando il nomignolo affibbiatogli dalla suocera? Chi voleva innervosirlo ormai lo chiamava sempre così, specialmente prima di una partita come quella. <<Parti già con la torre, vedo? Bene, bene, sei agguerrito quest’oggi, credo che vincerai, ma confermo che impiegherai almeno quindici mosse>> ridacchiava Rino, scatenando l’ilarità degli altri ragazzi presenti, che seguivano la partita con interesse. Non si sentiva in forma, Rino, poca forza per spostare le pedine e poche energie mentali per concentrarsi; ma Armando era facilmente prevedibile, schematico e ripetitivo da bravo ragioniere qual era, e come pronosticato vinse in 17 mosse. <<Un’altra partita?>> Chiese eccitato dalla vincita ma deluso dal numero di mosse che erano state necessarie. <<Non oggi, Armà, questa per me è stata l’ultima. E poi ho promesso a mia moglie di fare una cosa con lei e devo andare su.>>.
Mentre si avviava lento verso casa, un braccio sul bastone e uno dietro la schiena piegata dagli acciacchi, Rino dava un’ultima, nostalgica occhiata al loro cortile, che era stato fonte di una seconda vita per molti di quei “ragazzi”: un ultimo saluto alle panchine, alle piante e agli alberi e a tutti i suoi amici, che presto lo avrebbero raggiunto.
Rientrando a casa posizionò due sedie sul balcone ovest del loro appartamento al quinto piano e invitò sua moglie a sedere con lui per guardare insieme il tramonto fra i monti. Lei se ne stupì, ma non troppo: il cortile aveva reso più romantico suo marito, che non era nuovo a questo genere di cose e quello del tramonto era un rituale che aveva accompagnato spesso la loro lunga storia d’amore. Mano nella mano, guardarono il cielo accendersi di arancio e di fucsia, e il sole venire assorbito dal terreno lontano che ne beveva avido il liquido fuoco, mentre le stelle facevano capolino una ad una nel viola, nell’indaco, nel blu e poi nel nero della notte. Alla fine di quel tramonto piangevano entrambi, senza sapere il perché. Lei gli sfiorò la mano grinzosa con le labbra e lui la ricambiò con un ultimo bacio appassionato.
<<Vuoi cenare?>>, gli chiese.
<<Magari più tardi. Non ho molta fame, preferisco stendermi un po' a letto>> rispose, <<Ti amo .>>, concluse.
Accostata alle sue spalle la porta della camera da letto, Rino sorrise a Lei, che paziente lo aveva atteso alcune ore. Ripensò a tutte le volte che l’aveva incontrata fra le corsie della terapia intensiva, mentre coi dottori e gli altri infermieri giocavano con Lei al tiro alla fune per stabilire chi restava con loro e chi invece Lei si sarebbe portato via. Ripensò a quante volte Lei aveva vinto, ingiustamente e con prepotenza, portando via anche sua madre e suo padre, prematuramente, e poi ancor più prematuramente suo fratello e uno dei suoi figli con quell’iniquo male maledetto che devasta ogni famiglia. Gli era sembrato, quando quel povero ragazzo di soli sedici anni si era spento per la leucemia, che Lei fosse venuta in punta di piedi, quasi vergognandosi di quell’ennesimo gesto di violenza contro quell’uomo devastato dal dolore e chiedendogli perdono per quell’ennesima brutalità. Quel debito, adesso, veniva ripagato: Lei lo aveva atteso, perché dedicasse le sue ultime ore a tutto ciò che amava. <<Grazie .>>, le sussurrò sdraiandosi mentre lei iniziava di nuovo a stringergli il braccio sinistro, con molta forza stavolta. <<Te lo dovevo .>>, gli sembrò di sentire mentre scivolava nel suo ultimo sonno.