Filippo sapeva benissimo che cosa era: un cacciatore di belve a due zampe. Mano ferma e nervi saldi, tiratore scelto o semplicemente cecchino. Nelle file dell’esercito il gruppo di tiratori scelti si era rapidamente ingrossato, tanto da venir inquadrato in un reparto speciale; l’idea del Generale sembrava funzionare: dopo un anno di rodaggio quel suo nuovo giocattolo di morte uccise migliaia di nemici. Le gesta dei Cacciatori, così venivano chiamati, erano riportate dai giornali e su di loro erano stati stampati anche volantini propagandistici che ne esaltavano le eroiche imprese. Qualcuno di questi volantini cadde nelle mani del nemico e così anche loro, in breve, misero in campo i loro di cecchini. Era nata una guerra nella guerra. Spietati killer assetati di sangue si addentravano nelle retrovie nemiche con l’obbiettivo di uccidere e terrorizzare la popolazione civile. I Cacciatori avevano delle rigide procedure tattiche da seguire, ogni tiratore mandato in missione o in ricognizione esponeva il risultato delle sue osservazioni effettuate durante la giornata e formulava le sue supposizioni e presentava le sue proposte al cospetto del Generale, ma il più delle volte ritornare alla base per loro era impossibile e così restavano bloccati in territorio nemico e allora gli ordini erano sempre quelli: prima gli ufficiali, poi i sottufficiali alla fine soldati e civili, sparare, uccidere, creare panico e nascondersi in attesa di un’ opportunità per il rientro. Filippo era uno dei migliori del reparto, il primo del corso, e da poco era stato promosso caporale. Si accorse da subito, dai primi mesi di battaglia, che l'arte del cecchino era qualcosa di personale e che nonostante l'esperienza e le nozioni acquisite era l'iniziativa del singolo, che isolato in territorio ostile, faceva la differenza tra il vivere o il morire. Faccia a faccia con il nemico il tiratore doveva creare, inventare, agire di volta in volta in un modo nuovo cambiando spesso posizione e nascondendosi con cautela nella lunga attesa della preda.
All’uscita dal bosco le bianche cime innevate apparvero davanti a lui avvolte da un sottile velo di nebbia e vapore. Nelle retrovie, nei pressi di una radura ai bordi della pineta, pioveva da giorni, continuamente, pareva ormai da sempre. I fili lunghi e brillanti della pioggia montana scorrevano con un mormorio sordo e dolce fra i rami degli alberi e la rossa terra bagnata fumava un alito gelido che si confondeva con il respiro dei cavalli che a occhi bassi affondavano gli zoccoli nel fango mentre venivano accompagnati a fatica da un paio di soldati verso il loro recinto. Alcuni militari stavano in piedi sulla soglia delle baracche disseminate nella radura degli abeti; uno si accorse di Filippo e con un cenno lo salutò, poi riprese a fumare un'umida e nera vecchia cicca di sigaro.
“Caporale, questa non è la tenuta regolamentare”, commentò un anziano sottotenente di complemento squadrandolo in volto.
“Mah è tenuta da guerra”, rispose Filippo salutando militarmente e presentandosi.
Le gocce dell'acqua luccicavano scivolando nei suoi baffi cadenti e sulla sua lunga barba bionda, mentre i suoi limpidi occhi blu spuntavano appena da sotto l’elmetto.
“Abbiamo il secondo Cacciatore che il comando stava aspettando. Ottimo! La sua attrezzatura è tutta lì?”, Domandò l’ufficiale indicando dubbioso il fucile di precisione.
“Signor no… Lo zaino e il resto e su uno dei camion che sta salendo da valle. Ho preferito raggiungere l’accampamento a piedi. Questo è il campo base?” Domandò Filippo cercando di restare sull’attenti mentre con gli stivali sprofondava nel fango.
“Va bene giovanotto ascolta, sei quasi arrivato, un chilometro e forse meno e sei al campo base. Passa in fureria e fatti assegnare una baracca. Datti una sistemata e togliti quella cerata fradicia e bevi qualcosa di caldo”, l’ufficiale lo congedò con un sorriso e una pacca sulle spalle.
Prima di riprendere il cammino Filippo si fermò al lato della carreggiata a osservare “gli elefanti della montagna”, i fuoristrada cingolati che passarono saettando fango e slittando da tutte le parti. Terminati i carri leggeri d’artiglieria iniziò una lunga colonna di camion: quelli su cui avrebbe dovuto viaggiare lui per raggiungere il campo base.
“Che strade, Signore Idio!”, scese imprecando un ometto in mimetica da una berlina grigia. Il soldato bestemmiando si asciugò il sudore che malgrado la pioggia, gli colava da sotto il berretto inzuppato d'acqua.
“Oggi non si cammina, boia d'un mondo! Caporale, dagli una spinta”, urlò in direzione di Filippo un sergente saltato giù da un camion.
Le ruote pattinarono, e la macchina non voleva ripartire bloccando così l’intera colonna.
“Accelera, dai gas… Ora vai!” Urlò il Sergente. Con un'esse completa l’auto ripartì.
“Dopo tutto bastava una spinta”, sorrise il Sergente scrollando le spalle sotto la pioggia.
“Sergente proseguiamo?”, domandò l’autista del primo camion.
“Oggi non si cammina, boia di una vita! Ora passeremo noi, ma i treni d'artiglieria… Venticinque, trenta, quaranta carri, faranno fatica”, commentò il Sergente rivolto a Filippo. Poi con la mano destra diede il via alla colonna.
“La strada sale, come salgono le strade di montagna. Venti, ventuno, ventidue per cento e il fango cresce”.
Passarono i camion, tremando, gemendo e pattinando sulle enormi ruote e giunto all’ultimo della fila il Sergente si rivolse a Filippo:
“Salta su, caporale. Ti portiamo noi al campo. Monta su che il camion, porta tutto. Oggi portiamo cemento a duemila metri, per far le trincee contro quei cani. Domani porteremo assi per le baracche nelle valli. Non badare se slittiamo come ubriachi: Mario è il miglior conduttore dell’esercito”.
Uno schizzo laterale e l’ ultimo camion della colonna si rimise in moto con Filippo a bordo.
“Questo è il mestiere. Noi camminiamo da tre mesi su e giù da questa montagna. Abbiamo fatto diecimila chilometri portando rifornimenti alle truppe... Ne faremo cinquantamila ancora. Si parte la mattina e si arriva la sera. La nostra vita ormai è alla caserma a valle, o tra le montagne”.
“Buca! Tieniti forte caporale, e non badare se ti va la polvere nel naso”, lo avvertì il commilitone seduto al suo fianco nel cassone.
“Polvere nel naso?” Domandò Filippo, ma non fece tempo a chiedere che polvere che una nuvola grigia lo avvolse, mentre il camion si affossava e sbandava di lato per poi rimettersi in carreggiata.
“Cemento. Lo portiamo a monte. Questo bestione ne è pieno”, sorrise il Sergente alzando il telo e sistemando i sacchi per poi tornare a sedersi cercando di scrollarsi di dosso la polvere appiccicata alla divisa bagnata. Filippo si sporse fuori e notò altri cavalli, questi però sellati e pronti che nitrirono al loro passaggio.
“I cavalli, caporale! Son bestie stupide. Non hanno paura del cannone, ma dell'automobile sì”, commentò il Commilitone.
Il camion frenò bruscamente.
“Scendi, caporale sei arrivato. Quando passi a valle vienimi a trovare! Tu! Non stare lì impalato. Scarichiamo!” Urlò il Sergente al Commilitone aprendo il cassone. I sacchi caddero sul selciato con un suono tonfo, tra un gran polverio di cemento.
Piovigginava. La strada era, un torrente di fango rosso che scendeva terribilmente fra due file di abeti immobili e tristi. Filippo salutò il Sergente e il Commilitone e si diresse in salita verso i primi bivacchi. I bivacchi dei soldati fumavano nel bosco. Una ventina di militari erano radunati sotto una tenda e divoravano senza parlare una polenta gialla che spezzavano con le mani. Smise di piovere e tra le nuvole brillarono come diamanti le montagne bianche di neve e poi lui il forte, di pietra maestosa, l'avamposto del nemico che sormontava la valle proteggendo l'inaccessibile valico.
“Fa impressione eh? Siamo qua per questo… Per tirarlo giù, ma è difficile. Strategicamente domina la valle da entrambi i versanti, è inespugnabile. Ho visto il distintivo di reparto… Sono un cacciatore anche io”, disse un soldato molto più giovane di Filippo presentandosi come Giorgio.
“Sei nuovo?”
Filippo rispose con un timido:
“Diciamo di sì”
“Caporale, benvenuto, qua faremo la storia. Questo timido sole durerà poco e poi sarà buio e inizierà il mio turno di guardia. Le notti sono lunghe per la sentinella, e piene di dubbi e terrori: nelle tenebre la montagna si stira e diviene armoniosa e sonora, i torrenti gemono, i rari animali alpini escono con precauzione e riempiono l'aria di rumori inesplicati. Di tanto in tanto il cannone nemico si sveglia, un proietto lanciato a una arcata inverosimile scavalca la cima, arriva al colmo della traiettoria, e si precipita qui nella valle con un rombo di tuono... Terrificante amico. Ormai mi sono abituato alla solitudine e ora sono pronto ad affrontarli…Tutti loro”, disse tutto d’un fiato Giorgio indicando la montagna.
“Chi tutti loro?” Domandò stranito Filippo pensando che il suo nuovo compagno stesse delirando.
“I codardi che si nascondono dentro quelle mura, ma loro non sanno che ci siamo noi. Tutto attorno sulle cime che circondano la valle ci sono reparti di solitari. Cacciatori che da mesi non vedono volto umano se non di coloro che vanno di tanto in tanto con rischio della vita a recar loro i viveri e munizioni: sono i nostri fratelli. Isolati sui lati della fortezza, sono gli osservatori, essi vivono la vita degli asceti, nella contemplazione sola del nemico e dei suoi mezzi di offesa, intenti al rumore del sasso che precipita giù nella valle sotto il piede del soldato nemico, pronti alla fucilata isolata che mira all'ufficiale In avanscoperta, alle lunghe ombre che il sole declinando mette sul nudo altipiano. Questo è quello che presto faremo anche noi. Siamo stati addestrati per questo, no? Sarà emozionante”, concluse con enfasi il giovane.
“Già… Dove è la furieria? Ho bisogno di togliermi questa divisa fradicia e di qualcosa di caldo”.